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L'olivicoltura nel parmense

L'olivicoltura nel parmense

DIFFUSIONE DELL'OLIVICOLTURA IN ITALIA


Parma non è solo la capitale della Food Valley. Dal 2014 è anche Città dell’Olio: l’ha nominata l’omonima associazione nazionale. Parma e il suo territorio, infatti, hanno tutte le carte in regola per ampliare l’attuale offerta enogastronomica, arricchendo il paniere dei prodotti tipici con un olio extravergine d’oliva di qualità. Coppini Arte Olearia, con il suo intenso rapporto col territorio, la capacità innovativa, il coraggio pionieristico, la cura per il prodotto è stata in parte l'artefice di questa conquista.


In Italia, scrigno di tipicità oleicole dove si contano molti oli tutelati a livello europeo da riconoscimenti giuridici come le DOP (Denominazione d’Origine Protetta) e le IGP (Identificazione Geografica Protetta), l’olivicoltura si estende a quasi tutte le regioni, benché sia concentrata soprattutto al Centro-Sud: in Puglia, seguita da Sicilia, Calabria, Abruzzo, Campania, Lazio, Toscana. L’ulivo è presente, però, anche al Nord, in aree particolarmente favorevoli alla sua coltivazione, quali la Riviera Ligure, i territori attorno ai laghi lombardi, in Friuli, in Veneto e, nella nostra regione, sulle colline della Romagna (Cesena, Forlì, Ravenna, Rimini). Nelle provincie emiliane, invece, la coltura dell’ulivo è ancora all’inizio, benché otto secoli fa le colline del Piacentino, del Parmense, del Reggiano e del Modenese fossero olivetate, come dimostrano i tanti alberi plurisecolari sopravvissuti fino ad oggi. Un importante studio condotto dal 2004 al 2013, che ha coinvolto anche l’Università di Parma, ha dimostrato, non solo come la coltivazione dell’ulivo in Emilia abbia una lunga storia, ma anche come sia possibile riprenderla con successo e con buone prospettive economiche. Grazie alla presenza di aree a forte vocazionalità e all’alta qualità dell’olio che si può produrre.





L'OLIVICOLTURA NEL PARMENSE

La conoscenza della coltura dell’ulivo arrivò nel Parmense grazie agli Etruschi (Columella ci conferma che già tra I e II secolo a.C. c’erano ulivi nella nostra provincia), ma è ragionevole pensare che siano stati i Romani a impiantare i primi uliveti per produrre olio nelle zone collinari con clima più mite.

Dopo la perdita d’interesse verso questa coltivazione da parte delle popolazioni barbariche che s’insediarono in Pianura Padana dopo la dominazione romana, l’ulivo trovò rifugio nei monasteri benedettini e cistercensi, dove veniva utilizzato per scopi liturgici e per l’illuminazione più che per l’uso alimentare. Nel Parmense, la pianta riprese a far parlare di sé tra il XII e il XIV secolo, quando raggiunse il momento di massima diffusione nella Pianura Padana. A testimonianza di ciò sono stati ritrovati innumerevoli Statuti, Editti e Ordinanze che obbligavano gli agricoltori a piantare ulivi.

Questo periodo storico coincise con un innalzamento delle temperature mondiali, che favorì positivamente l’olivicoltura nel Parmense, come dimostrano gli olivi plurisecolari ancora oggi visibili in vari punti della nostra provincia, spesso situati vicino a monasteri ed edifici di culto (per via degli usi religiosi dell’olio) o castelli e case fortificate (spesso posti su scarpate dove solo l’ulivo poteva essere coltivato). Individui monumentali, in molti casi ancora produttivi, che hanno resistito al passaggio del tempo. Si pensi a quello di Viazzano, con la sua corona di polloni da dodici metri di circonferenza, che è uno dei più antichi di tutta l’Emilia.

Nella provincia di Parma erano visibili in passato anche diverse tracce architettoniche di torchi da olio. Al punto che il paese di Torrechiara ne ha acquisito il nome: il toponimo, infatti, sembra derivare dal volgare torciara, ossia luogo dove si trovano i torchi da olive. Anche il toponimo della località Ramiola, in cui sono stati individuati antichi ulivi, sembrerebbe legato all’olivicoltura: deriverebbe dal latino ramus oleae, ramo di olivo, appunto. Secondo Camillo Bianchedi, autore del saggio "L’olivo sulle colline parmensi", pubblicato nel 1880, l’impulso all’olivicoltura nella nostra provincia, stimolata dalla legge del 1258, proseguì per circa due secoli. Dal Rinascimento in poi, però, la coltura dell’ulivo nel Parmense fu progressivamente abbandonata a causa di molteplici fattori. Anzitutto, avverse condizioni climatiche (si verificò una piccola era glaciale che culminò tra il 1580 e il 1850), il crollo demografico provocato da pestilenze e denatalità nelle zone collinari, la disaffezione degli agricoltori attratti dalle più remunerative coltivazioni di pianura (la coltivazione dell’ulivo pone limitazioni territoriali: ambienti riparati, nella fascia collinare e solo sui versanti meglio esposti) e, infine, il miglioramento del sistema dei trasporti che facilitavano e rendevano più convenienti le importazioni dagli altri paesi e, dopo l’Unità d’Italia, l’abolizione dei dazi doganali.

Come ricorda Carlo Rognoni nel suo saggio storico "Sull’Antica Agricoltura Parmense", edito nel 1897, Pier Luigi Farnese, primo duca di Parma e Piacenza, nella prima metà del Cinquecento fece piantare nella zona di Salsomaggiore diversi esemplari di ulivo, ma poiché “non rendevano l’olio che abbisognava” decise di importarlo dalla Liguria e dalla Sicilia. Nel 1761 ci riprovò Guillaume du Tillot, Primo ministro del duca Filippo di Borbone, a far impiantare ulivi nel Parmense, perché quelli esistenti “producono ottimi frutti e atti in ispecie a formare olii grassi i quali si richiedono per conciare i panni, onda anche a filare le lane”, ma senza successo.

 

 

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